La vera sfida contro il tempo è un’altra

L’epoca della Performance

Avrei voluto parlarvi della Monte Rosa SkyMarathon; la gara di skyrunning più alta d’Europa con partenza e arrivo ad Alagna, in Valsesia, e il passaggio più alto ai 4.554 metri della Capanna Regina Margherita, sulla Punta Gnifetti del Monte Rosa. Una sgambata di 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello complessivo. La gara si è svolta il 25 giugno, ma oggi è il 4 luglio e la tragedia di ieri sulla Marmolada mi costringe a parlarne diversamente. Per maggior chiarezza per il lettore e rispetto dei recenti fatti, l’articolo verrà diviso in capitoli.

Perché non si possono accostare numeri che raccontano incredibili performance atletiche a quelli che preannunciano la fine del genere umano. Conosco e condivido il bisogno di evadere; anche a me piace correre. Comprendo i doveri degli atleti professionisti e ne difendo i diritti. È altrettanto vero, tuttavia, che è ormai vitale distogliere lo sguardo dal Garmin al polso per concentrarci su numeri più urgenti. Sacrosanto il bisogno, in questa sadica Epoca della Performance, di distrazione. Ma se continuiamo a vivere di sole distrazioni, di distrazioni moriremo.

 
 

Attaccare un soldato in ritirata

La gara si è corsa il sabato, ma io sono salita in ghiacciaio già il venerdì. Mi occupo, da qualche edizione ormai, della documentazione dell’evento e quest’anno avrei dovuto fotografare il passaggio delle Roccette, qualche metro sotto la Capanna Gnifetti, a quota 3.350 metri. Il Lorenz è salito con me per aiutarmi; lui fa l’idraulico nella vita ma ha un talento innato per la fotografia e tanta voglia di seguirmi in montagna. Poi è un buon amico, il che non guasta. L’obiettivo era quello di essere seduti in Capanna, con fetta di torta e caffè fumante, entro le 11:30 del mattino: era previsto maltempo. E ritrovarsi a oltre 3.000 metri, su quello sfasciume di rocce, vagando nella nebbia e rimbombando tra lampi e tuoni, non lo trovavo allettante.

Appena arrivati a Punta Indren, intorno alle 9, ci ha accolti uno spettacolo raccapricciante: il ghiacciaio è semplicemente irriconoscibile. Sembra che qualcuno abbia aggiunto roccia, invece si è “solo” sciolto il ghiaccio. È scomparso ma a me pare sia scappato verso l’alto; come un soldato in ritirata, impaurito e sporco. Noi imperterriti ad attaccarlo: un crimine di guerra. Qualche cordata avviata a passo lento verso Piramide Vincent, qualcun’altra, come noi, verso i rifugi. Ricordo di aver provato pena e perplessità insieme. Quando ero bambina la “mia” montagna era la baita del nonno Luciano e là tutti sorridevano e salutavano. I più socievoli giocavano a carte, i riservati leggevano o facevano le parole crociate e i più piccoli infastidivano i girini giù al fiume o giocavano a ruba bandiera. In quell’Alpe sconosciuta, di poche case e bella gente, si sapeva sorridere. Sono anni che non sento più la stessa cosa. E anche qui sul Rosa ho l’impressione che le lontane sagome umane legate l’un l’altra avanzino più per inerzia che per piacere. I miei “perché” sono ogni giorno più numerosi. “Perché venire fin quassù? Mi chiedo. “Se non per trovare un posto dove sorridere…” “Non facciamo più le cose per sorridere.” Mi rispondo. Provo pena per chi sembra triste quassù e al contempo mi perplime la scelta della meta; ci sono posti più sicuri per essere infelici.

Subito alzo il mento verso il Canalino Gnifetti, da cui è sempre passata la gara e dove sarebbe dovuta passare anche quest’anno. La lingua di neve, superstite isolata dell’inverno e testimone dei metamorfismi del manto, è scomparsa. Uno dei passaggi più scenici della gara, che sulla via del rientro si trasformava in un enorme scivolo naturale, è oggi un ripido canale di pietre precarie da cui si innescano modeste ma costanti scariche. Gli organizzatori, insieme alle Guide Alpine preposte, sono obbligati a ridisegnare il percorso della gara, allungandolo di oltre un chilometro. Quel passaggio meraviglioso, inclinato di oltre 40°, è oggi una ripida rampa marrone: un deserto in quota.

Abbiamo deviato ogni cosa a nostro favore, per decenni. Ovunque e anche in montagna. Oggi è lei a farci deviare. Per ora, qui sul Rosa, con gentilezza perlomeno. 

La voragine prima del rifugio

Riflessioni a parte, io e il Lorenz ci incamminiamo verso la Capanna in anticipo sulla tabella di marcia. Il nostro consueto “buon ritmo” è rallentato dagli zaini pesanti, ma in un’ora scarsa siamo ai piedi del rifugio. L’ultimo traverso è semplicissimo ma la neve, come una granita rovesciata a terra e fatta rigelare, forma uno strato insidioso; sembra di camminare sul sapone. Scegliamo di fare il giro lungo per raggiungere l’ingresso, passando da dietro. I grandi buchi, si sa, sul Monte Rosa iniziano dietro la Gnifetti e nella mia testa risuona la frase di un amico guida: “Òcio su per di là Chiaretta che è tutto bucato.” Io non sono un cuor di leone, sia chiaro, ma mannaggia a me pecco d’orgoglio; proseguo perciò in silenzio ma aguzzo la vista. Un paio di canaponi bagnati e una scaletta a pioli arrugginita ci separano dal caffè fumante. Una nuova crepa divide i nostri passi dal passaggio di roccia finale. Il Lorenz percepisce il mio disagio e passa per primo su uno strettissimo ponte di neve: “Sono passati tutti…”, dice per tranquillizzarmi. “Se ha tenuto me tiene anche te”, prosegue. Io non mi tocco le palle perché non le ho e lo seguo. Pochi minuti dopo siamo dentro; sotto il sedere una panca asciutta e sotto il naso una porzione esagerata di banana bread. In effetti il passaggio ha tenuto, così come il meteo. Inizia a nevicare ghiaccio che siamo all’ultimo boccone: alle 11:20, puntuale come un orologio svizzero. Aspetteremo in rifugio fino alle 4 del mattino seguente; l’orario della gara.


*Cenni storici

Trent’anni di storia non sono pochi, specialmente per una gara. Esattamente trent’anni fa, con lo stesso percorso di oggi, si è svolta la prima Monte Rosa SkyMarathon. Lo sanno in pochi ma è la manifestazione che ha dato vita, nel 1992, allo skyrunning. Quello vero. Da queste parti si parla di leggenda quando ci si rivolge a lei e, anche se personalmente non amo sbilanciarmi, lo spettacolo dell’evento ha qualcosa di magico. Oltre 170 squadre provenienti da 25 paesi partono all’alba per affrontare gli impegnativi 35 chilometri fino a un’altitudine di 4.554 metri con 7.000 metri di dislivello complessivo. Vedere gli atleti sgambettare come camosci su un percorso tanto tecnico è spettacolare.


Quello che è successo

Non sono interessanti le diciotto ore trascorse in rifugio; voglio raccontarvi di quelle passate fuori. I primi a passare davanti alle nostre ottiche fotografiche, dopo aver superato Antonioli e Bonaldi, sono stati il valdostano Franco Collé e il friulano Tadei Pivk. Fermeranno il cronometro ad Alagna, qualche ora dopo, con il tempo di 5h11’35’’ chiudendo al primo posto. La vittoria femminile è stata una gradita sorpresa; la messicana Karina Carsolio (che tanto in alto non era mai salita) ha tagliato il traguardo, insieme all’austriaca Stephanie Kröll, in 6h43’31’’. Ogni anno, in concomitanza con la corsa verso la vetta, si svolge l’AMA VK2: una competizione più accessibile seppur impegnativa. Si tratta di 9 chilometri di pura salita con 2.086 metri di dislivello positivo. Un doppio Vertical Kilometer® che raggiunge, all’arrivo, i 3.200 metri di quota. I primi a raggiungere Punta Indren, quest’anno, sono stati Marcello Ugazio in 1h35’56’’ e Grandjean Noémie in 2h08’24’’


Quello che ho visto io

Nel frame della macchina fotografica che esclude il superfluo, si vede di più. Non ho mai capito i fotografi che non usano il mirino; l’inquadratura aiuta a sintetizzare, a evidenziare. Le focali lunghe risultano più adatte allo scopo, ma anche con un 12 millimetri ci si può estraniare. Non è importante il rapporto d’ingrandimento ma l’isolamento, e i bordi di un’inquadratura grandangolare sono pur sempre neri. Mi ritrovo spesso a utilizzare lo strumento fotografico come un cannocchiale, specialmente in montagna. Prima di scattare mi diverto a cercare, per contestualizzare, per capire. Il 25 giugno, all’alba, puntare l’obiettivo verso i seracchi dietro la Capanna Gnifetti è stato il gesto più naturale del mondo. E provare tristezza e sconforto l’inevitabile conseguenza. Un’intera città di ghiaccio in fusione dove anche i grattacieli più alti soffrono e qualcuno, di tanto in tanto, crolla. Ripensare oggi, dopo il devastante crollo in Marmolada, a quel che ho inquadrato lassù, fa venire i brividi. Mentre annoto queste sensazioni ho la finestra aperta per il gran caldo e, per strada, un bambino strilla con la madre. Io sono altrove e mi pare di sentire le urla dei ghiacciai alpini, il lamento del nostro pianeta. Dell’umanità tutta.

Le immagini che vedete sono testimonianza di un exploit sportivo, ma nell’assenza di bianco, in lontananza e nelle quinte fuori fuoco, si legge tutta la drammaticità di uno dei temi più urgenti della nostra epoca. Se fosse davvero la fine di un’Era?


L’uomo non c’entra niente.

Seguo, da qualche settimana, il portale (consigliatissimo) di divulgazione scientifica a cura del geologo Andrea Moccia: Geopop. Sono diversi i video in cui affronta il tema del riscaldamento globale ma uno, di cui vi voglio sintetizzare il contenuto, mi ha colpito. La capacità di gestire le quantità di carbonio da parte del pianeta Terra viene spiegata, in via esemplificativa, con una bottiglia di vino da 750 ml. Siccome mi piace la birra e ancor di più l’idea di una birra da 750 ml, vi riporterò la stessa metafora sotto forma di luppolo. Immaginiamo l’atmosfera terrestre come una bottiglia di birra da 750 ml. Immaginiamola poi riempita con 750 ml di birra (possibilmente ambrata), e cioè il quantitativo che la bottiglia è in grado di gestire. Prendiamo poi un bicchierino (quello che si sversa, ricolmo di genepì, dentro le medie alla spina) e versiamolo nella bottiglia. Immediatamente si riscontra un problema: il genepì aggiuntivo straborda dalla bottiglia.

Ci sono ancora diverse persone, spiega Andrea, che considerano le fonti naturali di anidride carbonica una prova che la CO2 prodotta dall’uomo non costituisca un grosso problema. Ma pensiamo alla bottiglia: il problema non è il fatto che la bottiglia contiene 750 ml di birra, dal momento che è progettata appositamente per gestire quel quantitativo. Il problema è il cicchetto in più. Lo stesso concetto, continua Andrea, vale per le nostre emissioni. Il problema non sono le 750 gigatonnellate di carbonio che l’atmosfera contiene ed è in grado di gestire. Quei 750 miliardi di tonnellate, poiché emessi naturalmente, hanno trovato un equilibrio naturale impressionante rimanendo pressoché stabili nel tempo. L’oceano, ad esempio, libera ogni anno in atmosfera circa 90 gigatonnellate di carbonio ma ne assorbe, dalla stessa, circa 92. Le piante, continua Andrea con gli esempi, assorbono circa 120 gigatonnellate attraverso la fotosintesi clorofilliana, ma ne liberano, al contempo, 59 con la respirazione delle piante e 58 attraverso la decomposizione dei terreni. Non serve essere Einstein per notare che la quantità di carbonio liberata in atmosfera è quasi la stessa che l’atmosfera perde. In altre parole, la biosfera, la litosfera e l’idrosfera, sono capaci di togliere all’atmosfera la medesima quantità di carbonio che liberano nella stessa. Un equilibrio naturale eccezionale. Ora, tornando alla bottiglia di birra: è come se questa bottiglia scambiasse con altre bottiglie la stessa quantità di liquido facendone uscire sempre tanto quanto ne lascia entrare; mantenendo il livello stabile. Il problema sono quelle “misere” 8 o 9 gigatonnellate di carbonio che rilasciamo ogni anno nell’atmosfera con le attività umane. Questa “piccola” quantità (perché è piccola, sottolinea Andrea, rispetto a quella naturale) è una rottura di scatole per l’equilibrio naturale perché il sistema non riesce a gestirlo. Inoltre, il conseguente grave problema è che una volta che l’equilibrio si rompe non è possibile fare retromarcia, non nei tempi umani quantomeno. Le tematiche sono complesse, ma il messaggio chiave è questo: “Il problema non è la bottiglia, ma il cicchetto.”


Finché ci resta qualcosa

Non ho né il diritto né l’intenzione di soffermarmi su quanto accaduto in Marmolada. Dico solo che quando si perde una parte, seppur piccola, di qualcosa di grande, si perde sempre una parte del tutto. E che senza tutte le parti, il “Tutto” cessa di essere tale.
Le gare, gli eventi e le manifestazioni sono importanti e non vanno eliminati o disincentivati. Ma mi aggrappo all’utopia che da oggi in poi, con lo stesso entusiasmo e impiego di risorse, si organizzino attività di formazione, di educazione, di tutela di quel che resta. Finché ci resta qualcosa.

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Immenso Ladakh. Piccolo Tibet.

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‘A Muntagna