Immenso Ladakh. Piccolo Tibet.

Di questo terzo viaggio ai piedi dell’Himalaya racconterò quel che c’era; il bello e il brutto.
E l’interpretazione la lascio a chi leggerà.



*Basato su fatti reali



Il cinque agosto.

È cominciato tutto il 5 agosto, in Italia. Inglobata nel divano di casa, madida e sfibrata dall’estate torrida. Alla mia sinistra un vecchio libro logoro, recuperato da mio padre in un mercatino di libri usati: “Storia dell’Alpinismo”. Dev’essere finita, viene da pensare, se ne hanno già scritto la storia. 



“Montagne e letteratura” è il titolo del dodicesimo capitolo. L’ottava riga riporta una citazione di Lord Conway la prima volta che vide una grande montagna: “Per me, essa non faceva parte della terra, non aveva nulla a che vedere col mondo dell’esperienza. Quello, finalmente, era l’altro mondo, visibile, inaccessibile forse, ma presente; reale ma incredibile; solido, con l’aspetto di ciò che dura in eterno, e nello stesso tempo etereo; di una maestà soverchiante e affascinante a un tempo. Nel mio spirito non c’era neppure il desiderio di scalarlo”.



Tra meno di una settimana starò camminando in alto, nell’altopiano del Ladakh, in quel cuneo di terra montana a Nord dell’India, incastonato tra Pakistan e Tibet (o quel che ne rimane). Parto così, con la voglia di camminarlo quell’altro mondo, visibile, inaccessibile forse, ma presente; con il bisogno di qualcosa di reale ma incredibile, di qualcosa che sia lì per restarci in eterno.



Paese in un cristallo.

Non è una mia visione, questa del vederlo come qualcosa di cristallizzato. Personalmente ciò che ho trovato ha più l’aspetto del pongo o della creta fresca; quella facilmente malleabile. Nella regione più arida dell’India abbiamo camminato sotto acqua e grandine per quattro giorni consecutivi. È un mondo, anche questo, che sta cambiando rapidamente; a livello ambientale e culturale. L’unica caratteristica che ritrovo nel cristallo è la fragilità di un mondo trasparente, la cui immensa cultura è custodita con coraggio di fronte alle mire espansionistiche di Pakistan e Cina.



Ad ogni modo, bagnata o asciutta, la terra che ricopre la zona è sabbiosa ma senza dune. È una landa di assenze ingombranti. Ci si sente nudi in Ladakh, ma sicuri. Non bastano le ore per calcolare le distanze; sono i giorni a scandire le tappe di cammino. Di tanto in tanto un rivolo blu crepa la sabbia color mattone, o tortora, a volte terracotta, raramente porpora; magnifica. E quando l’aridità è interrotta il verde, invidioso e vanesio, si unisce alla composizione; abbraccia l’acqua come a esaltarne la presenza. Camminiamo tra i 4.000 e i 5.500 metri, ma ogni orizzonte è più alto e ogni montagna più innevata. Ogni cosa tende inesorabile al cielo, come se, contro ogni pronostico, il destino di un mondo perduto non fosse che quello di crescere.



Loro.

La pelle non è né chiara né scura. Spessa; come scudo contro sole e vento. Gli occhi socchiusi e la corporatura perlopiù minuta, ma forte. Mani di chi lavora e sguardi di chi scruta lontano; socchiusi. Quei “loro” per noi sono Santosh, quello che cammina, Dawa, quello che cucina, e Jampa, il cavallante. Sono uomini che vivono al ritmo della Terra; senza artifici a dettarne i tempi. Si coricano quando hanno sonno e si svegliano quando sono riposati. A parte Dawa che mangia e dorme quando e dove gli pare; un bambino di 90 chili. Si muovono tra una tradizione che sbiadisce e un progresso prepotente. Al collo portano pesanti amuleti, eredità di antichi antenati, mentre ai piedi indossano Crocs in plastica. Forse è un Oriente in progresso, forse un Occidente in declino, più probabilmente semplice globalizzazione.


Noi.

Noi siamo più deboli di loro, specialmente quanto la quota cresce. La pelle, più chiara e sottile, si screpola fino a spaccarsi. Dovremmo essere più massicci, ma io incarno la classica eccezione che conferma la regola, finendo per essere la più piccola del gruppo. Occhi addestrati a riflettere qualunque tipo di monitor, abituati alla luce ma non a questo immenso, a fine giornata sono stanchi; bruciano. Sgomitiamo tra le giornate a un ritmo forsennato, innaturale: una fiumana di formiche impazzite. Di plastica non indossiamo solo le Crocs e non abbiamo ancora capito cosa pensare della globalizzazione.


Il viaggio.

Fatte le dovute presentazioni, a incamminarci verso le montagne siamo in cinque: due italiani, due indiani e un nepalese. Il viaggio parte da Leh, come ogni cosa in Ladakh. La città è capitale dell’intera regione, centro di assurde contraddizioni. Gode di spazi sopraelevati pregni di sacralità, ma convive con un mercato che si è adattato al turismo e all’Occidente. Terrazze in alto, sopra le trafficate vie del centro, servono tentativi di pizza margherita e birra “Everest” al ritmo di un James Blunt, a volte di un Bob Marley. Intorno a una vita mondana estemporanea, vie buie circondano la zona segnando il limite tra l’India del turismo e quella dei silenzi di sabbia; quella di quell’altro mondo.


Ovunque, a Leh e nei dintorni, si costruisce; nuove strade, nuovi edifici. Il dispiegamento di forze militari nell’intera zona sottrae ulteriore sacralità e inquina l’India che fu. Del piccolo Tibet superstite rimangono sparuti monasteri arroccati dove antichi monaci e nuovi soldati convivono. Un cartello in legno, “La via per il monastero”, ha dipinta una freccia che indica verso destra e lì, in quella destra, un soldato in uniforme stringe un fucile. La confusione è sovrana.


Più o meno disorientati siamo ufficialmente in cammino, cinque culture diverse a condividere la stessa fatica. Non parlo qui di ogni passo perché non è il singolo passo a contare. Riporto la mia selezione.

*dal diario. 14 agosto.

Io e Santosh procediamo vicini, Mattia è dietro a fotografare. Oltre l’ennesimo orizzonte, in fondo alla steppa, un gregge di capre e pecore; magre e piccole. Raccontargli dei nostri formaggi di capra mi viene naturale. Gli spiego che da noi ogni valle ha il proprio pastore, e ogni pastore il proprio gregge e, spesso, ogni gregge produce un formaggio o una toma. Gli dico che è deliziosa ma non mi crede. E mentre lui racconta della Blue Sheep dell’Himalaya, io millanto il blu di capra, la sua pasta bianca venata e il sapore dolce e piccante.

*dialogo.

C: Quando andiamo in montagna, io e Mattia, cerchiamo di comprare cose come il formaggio direttamente dai produttori locali; dai nostri montanari


[…Santosh annuisce…]

C: Non solo il prodotto è migliore, ma è un modo per far sopravvivere le attività alpine. Per permettere a chi vive in montagna, di vivere di montagna.


Parliamo a lungo anche delle strade: le scorciatoie per la montagna. Non ci si accorge che l’idea di rendere più agibili e meglio raggiungibili luoghi remoti, in parte condivisibile, distrugge antiche culture e seppellisce tradizioni inestimabili. Che poi sono memorie e testimonianze trasmesse da una generazione all’altra; indispensabili per orientarsi.


Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.
— Indro Montanelli


Si abbandona un patrimonio millenario in cambio di una manciata di benessere. Il culo al caldo è bello, la pancia piena di più, ma se non ci si accontenta ci si impoverisce. Anche nel benessere, soprattutto nel benessere. E l’essere umano non si accontenta.


*pranzi. 

Ogni mattina Dawa prepara la schiscetta. Mi chiedo ancora come una quantità così esigua di cibo possa pesare tanto. Sarà la stanchezza, ma il peso specifico di quella singola patata pare quello dell’uranio. Il contenitore è un pesante barattolo metallico che ospita un bizzarro succo 100% anguria indiana, un uovo bollito, la suddetta patata, un cioccolatino stile Willy Wonka e, quando si è fortunati o quando Dawa si ricorda, una presa di sale avvolta in altro alluminio.


*dal diario. 16 agosto.

Fuori piove. All’interno della tenda tutto è umido ma caldo. Si mescolano fumi densi; sigarette nepalesi, una pipa, cherosene bruciato a cucinare altro dahl e il respiro di tutti. Per terra c’è la terra e ai bordi, dove filtra l’acqua, una fanghiglia rossa. Santosh, Dawa e Jampa dormiranno lì. Siamo al terzo giorno di cammino e ho ormai abbandonato l’idea che la catasta di roba ammucchiata ovunque abbia un qualche ordine logico. Nel lato più riparato dal vento, l’unto che cola dal telo e il fornello di ferro arrugginito, delimitano la zona cucina. Da una parte, sporche e rotolanti, alcune pere mezze marce, dei peperoni e tanti pomodori; belli rossi. Da uno scatolone umido e strappato broccoli, cavoli e strani spinaci spuntano ogni giorno più mosci; come me. Stanchi. Al fumo, quella notte, si aggiunge l’alcool di un Cuba libre improvvisato, fatto di Rum di dubbia qualità e resti di un fondello di Coca Cola. Ci si ubriaca e si scattano fotografie. E mentre un Dawa più spavaldo ci mostra il segno della guerra civile nepalese (un proiettile nella gamba), un Santosh donnaiolo ci parla di donne; avute e desiderate. In questi viaggi accade spesso: si mischia tutta la vita insieme.


*dal diario. 17 agosto.

Di questo Tibet superstite nel Nord dell’India cosa resterà? Le cose sono già cambiate, ma nella pelle crepata dei nomadi e nella purezza degli spazi incontaminati, io sento ancora tanto. Ho letto, qualche tempo prima di partire, di un progetto terrificante: La nuova Via della Seta. Una cosa enorme, voluta da quella mastodontica potenza cinese. La rete di nuove infrastrutture, di nuove colate di catrame a disegnare strade per collegare tutta l’Eurasia e l’Africa, accrescerà ulteriormente le emissioni di CO2 su questo pianeta spossato. 


*dal diario. 18 agosto.
Ho una sfiga e una fortuna nella vita, più o meno come tutti. Sono terribilmente magra, patologicamente si può dire, con una massa grassa del 12%. I motivi li conosce chi li deve conoscere ma questa naturalmente è la sfiga; perché non c’è nulla di bello nel non riuscire a mangiare. Ci stiamo lavorando su, comunque, siamo una bella squadra. La fortuna è quella di non patire la quota e anzi, più salgo e meglio sto. Strana storia la genetica. Mi piace pensare di essere nata per vedere da vicino questo immenso; le montagne che sogno. Mattia dice che sono un piccolo yak; loro in basso non sopravvivono. A volte a casa mi sento così: non so come stare al mondo. Quassù, lontano, sono libera, più fiera, persino più donna. E anche la sofferenza mi è dolce. Più saliamo, più il verde diventa raro. Pietre luccicanti preannunciano i passi più alti. E lassù l’infinito è totale. Come la nostra precarietà in questo tutto. Chörten ricoperti di preghiere buddiste sostengono teschi di yak. C’è della magia e del mistero nel modo in cui l’uomo segna il proprio passaggio. A me piace toccare e sfioro ogni cosa che incontro. Dieci giorni vissuti così vicino al vero li baratterei con due interi anni di vita quotidiana. Vorrei solo dare più forza alla mia voce per entrare nelle vostre case, per invitarvi a partire insieme. Per condividere.

La felicità è reale solo se condivisa.
— Tolstoj


*note di viaggio.

Non so se le mie fotografie sono buone. Sinceramente non m’importa che lo siano. È che le cose cambiano e io voglio ricordare.
125 chilometri. 8 giorni effettivi di cammino. 179.188 passi. 6.000 metri di dislivello. Passaggio a 5420 metri. Temperatura minima -5 °C. Zero docce.

Il punto.

È il mattino del 20 agosto e una cresta di roccia e neve, sulla destra, ci sovrasta: il Mentok Range. Le vette sono sfocate; a tratti fuse con le nubi, a tratti più nitide. Fasci scuri, quasi neri, macchiano il cielo. Con il vento forte la figura si anima; lassù c’è tempesta. Il piano volge a mio favore; mi sento stanca e l’idea di lasciare quella cima al suo disegno non mi dispiace. Anzi, vorrei essere sempre così tollerante con i miei obiettivi. Si termina con un giorno di anticipo dunque. Sento la voce della mia famiglia, l’acqua calda scrostarmi la testa e la sete placarsi di birra. Il profilo di Mattia mi dorme a fianco dopo la breve visita al villaggio di Korzok, sulla riva di uno dei più grandi laghi dell’Himalaya; lo Tso Moriri. Leggenda narra che nessuno si sia mai bagnato nemmeno un dito; si temono correnti e… “un’anomala forza di gravità che risucchia verso il fondo.” Così dicono. In effetti non v’è nulla; un’immensa pozza blu come petrolio, densa, senza inizio né fine. La sporcizia non è paragonabile a ciò che ho visto in Pakistan, neppure in Nepal. Cani morti qua e là, merda dappertutto. Sui tetti delle capanne mai finite pellicce, taniche piene e vuote, plastica, copertoni, plastica, avanzi di cibo marcio, plastica e altra merda. Bambini belli e sporchi ci giocano sopra. Fotografare costa fatica, sembra mancanza di rispetto. 

Intorno nessuno fa nulla. Qualcuno beve, qualcun altro sgrana un rosario buddista, i bimbi giocano e le donne, come ovunque, chiacchierano. Mi chiedo se invece di pregare tanto non si possa costruire un cesso decente. Non giudico, m’interrogo. Perché in India, nella stessa aria in cui volano polveri nocive, fumi di cherosene e tanfo di merda, s’innalzano verso il cielo i mantra appesi e sbrindellati; sussurrati dalle preghiere svolazzanti ovunque. E noi, che cosa facciamo volare?

Aiutatemi a rispondere. Davvero. Scrivetemi e risponderò: chiara.guglielmina93@gmail.com

P.S. Ci tengo.

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La vera sfida contro il tempo è un’altra